venerdì 26 luglio 2013

12 luglio 2013 alle ore 18.47
Che Giovinazzo sia un posto speciale lo si capisce già in aereo. Quando il Boeing vira sull’Adriatico convergendo verso destra per l’atterraggio a Palese, lontano, appare, protesa tra il cielo azzurro ed il mareblu, una sottile striscia bianca, cui due torri segnano la fine.
Una piccola città (non più di 20000 abitanti in una regione dove vi sono cittadine ben maggiori) cui ci si avvicina attraversando la tipica campagna pugliese, una steppa arida, assassinata dal sole e poco confortata dall’acqua, qualche ciuffo di erba gialla e soprattutto muretti; interminabili intrecci di muretti di varia misura, in pietra, a secco, che delimitano le proprietà e le case.
Secondo i diversi punti di vista Giovinazzo piace o delude. Non possedendo una vocazione turistica strutturata nella storia, a causa della costa stretta e rocciosa, non ha sviluppato tutto quanto ci si attende da una città balneare. I negozi in centro sono pochi, quasi pudicamente nascosti e senza insegne vistose, ma soprattutto il lungomare, fatto per lo più di abitazioni private, non pullula di chioschi e bancarelle a vocazione “marinara”, come è d’uso in altri paesi costieri, meno ricchi di storia. Esplorando a piedi il dedalo di vie che portano al centro s’incrociano gruppi familiari, davanti casa, che celebrano il tempo socializzando e parlando assieme, ridendo e litigando; sempre a voce alta, come si usa qui. Apparentemente non sembrano interessarsi al “forestiero” ma invece di sottecchi lo studiano e ben lo inquadrano, prima che sia sgattaiolato dietro un angolo.
Questa atmosfera di “strapaese”, appartenente forse più agli anni sessanta che ai nostri tempi, dà comunque un senso di serenità, di un tempo che scorre lento senza impicci, di calore familiare; cose impossibili da trovare a Bari o nella vicina Molfetta, caotiche e assordanti. Personalmente questa atmosfera mi ha molto ricordato il paese di mia madre, San Ginesio (Macerata) dove tutti si conoscevano e dove tutti si salutavano ad alta voce troncando il nome nel richiamo: Giusè, Giovà, Vittò ecc.; un po’ tornare bambino.
Ad ogni angolo, ad ogni nuova via c’era l’incontro con il padrone di questa terra e ti trovavi sempre ..con la faccia dritta nel sole. Vivere il sole dà estrema cordialità a questa gente e rende facile socializzare assieme soprattutto con chi non si conosce, diversamente dal Veneto, grigio e piovoso, dove tutti stanno davanti alla Tv e al computer e nessuno si accorge del verde intenso dell’erba.
Poi, improvvisamente, arriva un incontro inimmaginabile per la dimensione urbana; giri un angolo e davanti ai tuoi occhi si apre una piazza immensa, un campo di calcio in pietra con in mezzo una fontana bronzea dalle suggestive sfumature e di impareggiabile bellezza. Così capisci che questo è il cuore della città, lento di giorno ma rapido e “caliente” di sera; la chiamano cordialità, ovvero cor-cordis, ciò che deriva dal cuore. Vi garantisco che anche in un assolato pomeriggio, con la piazza semideserta, vedere scorrere i fiotti dei Tritoni fa lo stesso effetto di un miraggio nel deserto; Giovinazzo è lì, cuore che batte, acqua che scorre come il sangue che dà energia.
L’austera facciata di San Domenico non incuriosisce troppo il visitatore, che subito nota a sud, sulla sinistra, l’inizio del centro storico della città. Allora affretti il passo e ti getti in quel dedalo di case e viuzze, carezzato dalla brezza (mi sa che a tratti era anche Maestrale). Nel gioco fatale di luci ed ombre, create dalla pietra bianca, con cui sono erette dimore e chiese, con stupende bifore campanarie di stile spagnolo, l’immaginazione si perde, osservando strani stemmi, così diversi da quelli del centro nord, scoprendo angoli poetici ravvivati dal ferro battuto e dai fiori. Allora capisci che avresti bisogno di una guida, non necessariamente ferrata in storia, ma una guida che sia in grado di trasmettere le forti emozioni di quei colori, così contrastati, eppure così armonici; avresti bisogno di un artista, di un pittore più che uno storico. Angolo dopo angolo giungi alla cattedrale, con le sue due torri simmetriche, una tronca ed una classica, gettata sul mare come a proteggere pescatori e marinai, ma con l’ingresso rivolto all’entroterra, forse per difenderlo dai danni del tempo, del sale e del vento. È la chiesa di Santa Maria Assunta il duomo di Giovinazzo, voluta da una principessa angioina ... Constance d’Hauteville, sul finire del XII secolo. Fu poi parzialmente rifatta nel 1700, perdendo molto dell’antico splendore. Nell’interno la chiesa conserva, tra le bellissime opere di arte religiosa, tra cui un grande crocifisso ligneo, una icona bizantina della Madonna di Corsignano (nell’agosto 1388 solennemente proclamata Patrona della Città). L’immagine, o quanto resta dopo i danni di un incendio, è custodita in una preziosa edicola d'argento vecchio con incrostazioni d'oro e policromata di smalti. Tra ceselli, metalli preziosi e protezioni il complesso dell’icona, avviata solennemente in processione nel mese del Leone, agosto, presenta un peso di 4 quintali, portato a spalla per le strette vie del centro, tra il tripudio della folla.
Quando il sole sembra dar tregua e si accinge ad iniziare il suo riposo notturno, arrivi all’angolo della cattedrale, una piccola finestra sul porticciolo. Lì un’immagine fiabesca si apre davanti agli occhi. Un sole d’oro che s’immerge nel mare al tramonto, una scia luccicante di luce sull’acqua e, in mezzo al fascio luminoso, la silhouette nera di una barca che,lenta, torna a riva. Non è un’immagine da “cartolina illustrata”, è un colpo diretto all’anima, un’intensa emozione proprio mentre, la faccia ancora dritta nel sole, ti accingi ad accogliere una fresca nottata. Capita che in quel momento si possa ripensare a molte cose della propria vita, a misurare i ricordi con i sogni, gli insuccessi con le speranze e a pensare quanto è immensa la Natura rispetto alla vita quotidiana che spesso opprime. Con un’immagine così ringrazia il Creatore anche il peggior miscredente.
Il sole cala e il mare oscura. Il porticciolo culla le poche, piccole barche colorate presenti sotto il bastione (detto mi pare “uTammurr”), mentre qualche pescatore scarica a terra gli oggetti serviti alla pesca. Poco prima dell’oscurità si accendono tante suggestive lampade gialle. Sembrano tanti figli del sole, ormai irrimediabilmente coricatosi a ponente. Ora che il mare s'è fatto nero, ricordi i suoi splendidi colori di giorno, un trionfo di blu gettato, come sfida, contro un cielo azzurro, lontano quasi indaco, via via più chiaro verso la costa rocciosa, sino a diventare verde smeraldo e trasparente al basso fondale. Guardando le bianche creste delle onde, giocare sullo sfondo verde del mare, salgono alla mente i colori della squadra locale di hockey, a strisce orizzontali bianche (onde) e verdi (mare). (Mi raccomando dott. Favuzzi rifaccia quella maglia antica con striscia sottile e lasci perdere le ultime casacche ingloriosamente verde bottiglia .. Perbacco!)
Arriva la sera e si popola la piazza, a gruppetti. Si espandono sempre di più man mano che il tempo passa, tutti regolarmente per fasce: gli anziani sulle panchine, le famiglie a passeggio, i ragazzi e i giovani a gruppi che sciamano a sinuose curve irregolari. È un andirivieni festoso di sorrisi e richiami, di chiacchiere prima di cena.
Per l’appunto, un’altra cosa curiosa, per un veneto, è l’orario di cena, sempre molto tardo. È una verità antica, che probabilmente fa i conti con il ritmo solare. Se nelle fredde valli del nord il tramonto è molto precoce e le attività agresti erano presto interrotte dal buio, al sud le ore serali, ancora illuminate dal sole, e il cessare del caldo da sempre stimolavano la fine dei lavori nei campi; ne conseguiva un’ora tarda per la cena.
Giovinazzo a tavola presenta un’altra anomalia. Da un posto di mare ci si aspetterebbe quasi esclusivamente un’alimentazione a base di pesce. Le pietanze a base di pesce qui sono sublimi, tuttavia, forse per il fatto che il pesce sia caro (tanto che molti dicono di preferire l'acquisto direttamente al mercato di Bari), qui si mangia anche molta carne. È una particolarità curiosa, magari sta a confermare una scarsa vocazione marinara e turistica (dicono che non sono molti i visitatori da fuori e spesso che siano giovinazzesi emigrati per motivi di lavoro; è anche vero che la città in agosto si trasforma in una bolgia di gente, non solo con il ritorno degli emigrati per la festa della Patrona, ma anche con numerose presenze straniere). Ritornando, poi, alla carne, un’altra cosa curiosa è il legame tra quaggiù e Norcia, Umbria, con le sue specialità (salumi e funghi). A cosa risalga questa tradizione non è dato di sapere. Per alcuni locali è solo una moda, tanto è vero che c’è il dubbio che di realmente norcino, in quelle carni, vi sia ben poco. Mistero!
Giovinazzo possiede anche il fascino della morte di una nobiltà antica. L’imponente complesso delle vecchie acciaierie e ferriere pugliesi (AFP) in disfacimento, grandi capannoni entro i quali aleggia il fantasma dell’Eternit. La “città sociale” e il parco creato da Michele Scianatico, in onore di Giovanni Scianatico, non era un semplice “parco” ma un vero e proprio “Gardaland” home-made con strade, ponti e incroci, da percorrere con le automobiline, onde imparare il codice della strada. Aveva una sua scuola d’avviamento professionale, un gruppo musicale ed una pista di pattinaggio (là nasceva il mito dei biancoverdi di hockey); insomma un modello molto simile a quello della famiglia Marzotto a Valdagno, risalente agli anni ’30, quando un’azienda seppe creare una nuova  città per i dipendenti, dotata di tutte le infrastrutture sociali. La stessa aria di morte di una gloria antica, il tanfo di fasti passati si respira a 900 km, nel Veneto, altro paese in cui lo sport dell’hockey pista è diventato un simbolo di riscossa locale.
Non finirò mai di ringraziare gli amici che mi hanno convinto ad intraprendere questo viaggio, lungo non per i km, ma perché mi ha fatto correre indietro nel tempo, guardare dal finestrino di un immaginario treno i miei ricordi, rapidi e sfuocati da vicino, nitidi e lenti all’orizzonte, lontano, mi ha fatto bere ancora alle fontane di strada, come quando ragazzino giocavo a rincorrere gli amici, giù nelle Marche … e poi mi ha fatto ridere di cuore, un’arte che da troppo tempo non praticavo più. Mattia (Siani) nel film Benvenuti al Sud diceva: “Quando vieni al Sud piangi due volte, sia quando arrivi, sia quando te ne vai.” Ebbene non ho pianto quando sono arrivato da turista curioso, ma in aereo sì che mi sono commosso; ho tenuto giusto quella parte d’organo pompa che serve per vivere, lavorare,produrre (come diciamo noi), ma ho lasciato quasi tutto il mio cuore laggiù …con la mia faccia dritta nel sole.

Enrico Acerbi

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